Grazia Brocchi, "Preziosità coscienziale"

La prima pietra d’inciampo in cui mi imbatto, meditando un commento alla collezione “Preziosità coscienziale”, è la definizione del tipo di opere d’arte che la compongono. L’etichetta, insomma, da usare per iniziare a descrivere queste opere. Di “quadri” non si tratta. Di “statue” nemmeno. Definirli “gioielli” mi pare inappropriato; e il termine “bassorilievi” mi sembra altrettanto fuorviante, o di certo poco significativo.

Già con la collezione “Immanenza grafica” (2008), mia madre, Grazia Brocchi, presentava una forma di elaborato artistico difficilmente inquadrabile in un filone definito, che univa la fotografia, l’elaborazione digitale, il collage con diversi materiali; per il quale ho coniato il termine “digitart multimaterica”. Un’originalità espressiva che veniva confermata con i quadri della collezione “Squarciando il velo” (2009), in cui al dipinto acrilico si aggiungeva il collage tridimensionale.

Ma credo che “Preziosità cosicenziale” valichi una soglia ulteriore in questa esplorazione di nuove forme di espressione artistica. Semplificando molto, possiamo dire che si tratta di statuette di terracotta, dipinte e decorate con gemme sintetiche e mosaici, ed applicate a mo’ di bassorilievo su lastre di plexiglas, a loro volta fissate su piattaforme laccate bianche ed incorniciate da più o meno complesse lavorazioni e decorazioni in vetro colorato. Essendone autrice mia madre, ed avendo io perciò avuto la fortuna di assistere personalmente alla maggior parte delle fasi di creazione delle opere, posso affermare che il lavoro che porta alla nascita di ciascun elaborato è certosino. La minuzia necessaria, impressionante. Un lavoro del quale sicuramente ci si può rendere conto soltanto apprezzando queste opere nei dettagli, con la pazienza e la devozione che si potrebbe dedicare all’esame di un diamante raro.

Ma il problema relativo alla “definizione”, risulta secondario rispetto all’affrontare la collezione “Preziosità coscienziale” sul piano concettuale, del suo significato. L’ostacolo maggiore nell’interpretazione simbolica, è che l’opera di Grazia Brocchi si presenta sempre come carica di simboli, ma di simboli che necessitano un tipo di esegesi diversa da quella comunemente applicata. Cerco di spiegarmi meglio: nel mio lavoro di studioso di simbologia, sono abituato ad indagare “cosa vogliono dire” le immagini, qual’è il loro significato alla luce di un’interpretazione razionale. Ogni simbolo “spiega” qualcosa alla nostra mente, e il mio compito è quello di capire cosa. Tuttavia vi sono dei casi, e “Preziosità coscienziale” è uno di questi, in cui il ruolo primario del simbolo non è quello di insegnare qualcosa, bensì quello di far provare una certa emozione, un sentimento particolare. Cosa significa? Che i diversi simboli utilizzati da Grazia Brocchi nei suoi elaborati, non sono scelti tanto per la loro semantica, la loro interpretazione non passa attraverso la preparazione culturale o il ragionamento; bensì, sono scelti poiché esprimono delle sensazioni. Per capirle, non serve creare collegamenti concettuali, immaginare rimandi storici o mitologici, citazioni o linguaggi codificati; poiché il vero linguaggio di queste opere vuole comunicare alla nostra sensibilità, potremmo dire alla nostra anima.

Certo, molti dei simboli utilizzati sono archetipi celebri e quasi onnipresenti: sole e luna, albero, unicorno, stella, rosa, uovo; ma l’impiego di un così vasto e “dotto” apparato simbolico risulta in realtà subordinato all’ispirazione dell’autrice, e non andrebbe letto per quello che la tradizione pretenderebbe di insegnare. I veri simboli in questo caso sono i colori, la materia, la luce; i gesti, gli sguardi e le smorfie delle diverse creature… Sono simboli che parlano al sentimento. È a causa loro se non possiamo impedirci di rimanere incantati dal mutevole rifrangersi di riflessi iridati prodotto dalle gemme, ed essere trasportati da questi paesaggi onirici, questi personaggi che sempre ci osservano con i loro occhi dai mille bagliori.

La particolare tecnica impiegata, è stata elaborata dall’autrice per ottenere un effetto cromatico insperabile con i metodi di colorazione tradizionali (tempera, olio, acquarello…), considerati dall’artista come “colori morti” in rapporto al risultato permesso dall’unione di gemme sintetiche, vetri, polveri e colle brillanti multicolori; che attraverso la luce sembrano elevare il colore alla sua essenza pura, trasfigurarlo in un distillato vivace e radioso, pulsante, quasi “vivente”.

L’aspetto finale, iridato e sgargiante, sembra evocare la vernice liquida, lo smalto fresco. Chi osserva si sente trasportato in un racconto delle “Mille e una notte”, al cospetto di tesori fiabeschi (l’aspetto favolistico, del resto, sembra volutamente evocato dall’intera collezione).

Parlando dello stile, notiamo uno stratificarsi di esperienze derivate da epoche e civiltà diverse. Troviamo contributi di matrice antica, con richiami all’arte precolombiana, aborigena, africana, thailandese e celtica; non mancano poi riferimenti alle maschere del Carnevale di Venezia e persino (lo avevamo già constatato in occasione del commento ad “Immanenza grafica”) alle vetrate gotiche; il tutto trasfigurato da un gusto contemporaneo e talvolta futuristico.

Nelle diverse opere, oltre all’inusuale unione di terracotta e gemme, notiamo la compresenza di figure umane, animali e soggetti tratti dal mondo vegetale o dal firmamento. Abbiamo così da un lato la ricerca di una consapevolezza in cui spirito e corpo non siano più disgiunti (dove la terracotta sta per la realtà fisica e le gemme per quella metafisica); e dall’altro la proposta di “ecosistemi della coscienza” in cui ogni organismo viene considerato parte di un tutto: uomo, animale, fiore o stella, ogni cosa è vista come cellula di un paradiso terrestre che è già intorno a noi e dentro di noi.

Importante il ruolo dato al femminile, che nelle composizioni sembra predominante: sia per quel che concerne il gusto d’insieme, sicuramente più vicino alla sensibilità femminile che non a quella maschile; sia per la maggioranza di soggetti femminili che si può riscontrare, soprattutto tra le figure umane. Tuttavia, il maschile non viene escluso o declassato, né si può dire che le opere veicolino messaggi “femministici”: è, invece, il lato femmineo dell’animo ad essere chiamato in causa, come sede privilegiata del sentimento creativo e affettivo, vettore dell’evoluzione personale.

Grazia Brocchi, immagina queste “tavole” come un percorso della coscienza (privo di un ordine di successione prestabilito; ma adattantesi alla progressione individuale), in cui ogni opera rappresenta un particolare sentimento (od un’associazione di sentimenti) che condurrebbe, secondo l’autrice, all’ottenimento di una rinnovata “preziosità”, o ricchezza interiore. I bassorilievi sarebbero in qualche modo la rappresentazione visiva della coscienza futura, dell’umanità di domani.

Una coscienza che Grazia Brocchi immagina fatta di semplicità, autostima, felicità, edonismo. Ma con edonismo non si intenda, qui, soltanto la ricerca del piacere sensibile immediato, bensì anelito ad un “piacere” di significato più elevato, interiore, infantile, espressione di serenità e appagamento psicofisico.

Non si tratta però della ricerca di una stereotipata “ingenuità”, né di un’esaltazione del pensiero ottimista ad oltranza; bensì forse di una raggiunta innocenza “lucida” nel confrontarsi al mondo nelle sue manifestazioni molteplici, espressione di una diversa maturità che predilige la coltivazione della felicità propria e altrui.

Questa la decodifica, se così si può dire, basata su interpretazioni espresse direttamente dall’artista:

I sentimenti concretizzati dalle singole opere potrebbero tradursi con l’affetto protettivo e materno (l’ancora); la percezione compiaciuta della propria unicità (il cigno); la capacità di apprezzare i doni (il sole); la consapevolezza che l’universo danza e ci culla nel suo moto, trasformandosi insieme a noi (la luna); la fortuna, la gioia dell’abbondanza (l’unicorno); il godimento della felicità (la paradisea); la rinascita costante, il mutamento, il rinnovamento (il pesce); l’attenzione amorevole, l’apprensione, la vigilanza (il gallo); la semplicità della mente, il pensiero infantile (il ragno); la tenerezza (la rosa); la leggerezza generata dalla stabilità (il pulcino).

In questo percorso è interessante sottolineare la visione rinnovata e antitetica di molti sentimenti rispetto al retaggio passato e ad un modus vivendi più incentrato sulla celebrazione del contegno e dell’automortificazione. La “coscienza nuova” proposta da Grazia Brocchi è fatta di esseri umani che non hanno paura di essere sereni, liberi da dogmi e scuole di pensiero, e soprattutto capaci di instaurare armonie e rapporti che vadano oltre il giudizio etico sociale. Armonie, modi di costruire il proprio esistere, basati appunto sulla coscienza del singolo. A questo vogliono alludere i tasselli di mosaico a specchio presenti in alcune tavole della collezione, come a dire che è l’individuo a dover considerare sé stesso e trarre da sé le conclusioni riguardanti il proprio agire. Non si tratta di velleità anarchica, ma della necessità di ricominciare a capire (con sé stessi) dove si è diretti nella vita.

Cervello e pensiero, un'ipotesi



Chi l’ha detto che i pensieri nascano nel cervello? La scienza neurologica. E con quali prove? Ad esempio che le diverse aree del cervello mostrano attività crescente all’insorgere di determinati pensieri. O che, cervelli danneggiati, sembrano impossibilitati ad effettuare determinati tipi di attività mentale. Lo stesso sembra valere per i sentimenti, tanto che alcuni luminari pretendono di dimostrare che sentimenti quali l’amore altro non sarebbero che una serie di processi chimici che avvengono nella nostra scatola cranica.

Questo vorrebbe dire che con la morte del corpo fisico e dunque la cessazione delle attività cerebrali, l’individuo non sarebbe più in grado di avere un vissuto né mentale né sentimentale. Il che nega apertamente l’idea, antica quanto l’uomo, che la coscienza possa in qualche modo sopravvivere alla morte.

Eppure, come contraddire la scienza attuale, con tutti i suoi autorevoli esperimenti?

Forse basterebbe riconsiderare il problema cambiando la prospettiva. Immaginate per un attimo che non sia l’attività cerebrale a dare origine al pensiero, bensì, al contrario, che sia il pensiero a dare origine all’attività cerebrale. Che non siano le terminazioni nervose e quant’altro si muove nella nostra testa a darci una consapevolezza, bensì che la nostra consapevolezza stimoli e faccia muovere il nostro cervello… Questa idea, senza essere in contrasto con i test neurologici, ribalta completamente la visione che abbiamo dell’encefalo: da organo attivo come causa di un vissuto psicologico, a “decoder” passivo, interprete di tali processi sottili.

Se fosse il cervello a generare il pensiero, dovremmo chiederci come può la materia (in questo caso la materia cerebrale) originare l’astratto (come lo sono i pensieri e i sentimenti). In natura, il simile genera il simile. Come possono degli atomi, delle molecole, delle sostanze, mescolarsi in tal modo da formare qualcosa che sfugge totalmente dalla concretezza, come lo è il vissuto psichico di una persona?

Il fatto che il nostro cervello abbia delle reazioni a particolari attività mentali, non dovrebbe stupirci: non sarebbe l’unico organo del nostro corpo a farlo. Il cuore, ad esempio: il suo battito aumenta repentinamente all’insorgere di determinati pensieri. I polmoni: il respiro può farsi affannoso o disteso e rilassato, a seconda del vissuto emotivo. Lo stesso accade all’apparato digerente, che risente della rilassatezza o dell’agitazione emotiva; a quello riproduttivo, che reagisce agli stimoli erotici anche immaginari, ecc. Tutto il nostro corpo risente di ciò che la nostra coscienza vive, e lo manifesta in moltissimi modi.

Ma il fatto che il cuore si metta a battere più forte se pensiamo ad una persona che amiamo o, al contrario, a qualcosa che ci fa paura, non significa che è il nostro cuore a generare amore e paura! Come non sono i polmoni a generare la causa dell’affanno!

Perché allora proprio il cervello dovrebbe essere responsabile dei pensieri?

Il fatto che un cervello danneggiato non possa svolgere certe funzioni mentali, indica soltanto che un individuo il cui corpo presenta quei danni non riceve e non può applicare certe funzioni mentali.

Un liquido, assume la forma del suo contenitore: perché non può valere lo stesso per il pensiero, che assume la forma (le capacità) del cervello che lo deve ospitare? Potremmo allora concepire il cervello come l’organo fisico che permette la comunicazione del pensiero con il nostro corpo. Se un cervello è danneggiato, la coscienza non potrà comunicare al corpo fisico alcune cose, e questa potrebbe essere la semplice spiegazione di cosa significhi handicap cerebrale. Inevitabile l’analogia con qualsiasi mezzo di comunicazione inventato dall’uomo (poniamo un telefono): se l’apparecchio è danneggiato, la comunicazione risulterà alterata, e l’entità di questa alterazione sarà direttamente proporzionale al danno dell’apparecchio. Se l’apparecchio potesse essere riparato, la comunicazione potrebbe avvenire senza intoppi; così come, se un cervello potesse essere curato, l’handicap non sussisterebbe.

Il fatto che, come è stato più volte accertato e sperimentato, alcune sostanze chimiche possano avere determinati influssi sullo stato d’animo di una persona (gli psicofarmaci ad esempio), non dimostra che sia la chimica ad originare i pensieri. Se, come abbiamo ipotizzato, fosse il pensiero a comunicare al cervello e non viceversa, questa comunicazione dovrà per forza avvenire grazie ad un sistema di comunicazione, che potremmo definire un codice, un linguaggio che renda possibile l’interazione della psiche sul corpo. Trattandosi, nel nostro caso, di un linguaggio chimico, è naturale che, le sostanze che servono a garantire questa comunicazione (es., gli ormoni), produrranno determinati effetti e non altri. Di conseguenza, se queste sostanze verranno immesse nell’organismo da cause esterne (es., i medicamenti), è chiaro che il corpo reagirà come se quegli stimoli fossero stati dettati dalla psiche.

Oggi si crede che gli ormoni determinino alterazioni emotive (es. negli adolescenti, nelle donne incinte, in menopausa, ecc.). Ancora una volta, ci si potrebbe chiedere se la cognizione non andrebbe ribaltata: se non fossero, al contrario, le alterazioni emotive a scatenare la produzione di certi ormoni…

Un’altra questione molto importante correlata al nostro discorso, è quella della coscienza unica e delle coscienze individuali. Diverse correnti filosofiche e mistiche, nella storia hanno sostenuto che esista un’unica coscienza universale e che l’individualizzazione di questa coscienza potrebbe non essere altro che una sorta di “illusione” da noi percepita. Inutile dire che la scienza attuale, la quale, come detto, si basa sulla convinzione che la coscienza sia un prodotto cerebrale, non contempla questa ipotesi; esclusi forse i fisici quantistici, le cui conclusioni sembrano oggi avvicinarsi molto alla dottrina delle antiche scuole misteriche.

Se è il pensiero ad agire sull’encefalo e non il contrario, questo “pensiero” potrebbe non essere qualcosa che ha origine dall’individuo, bensì qualcosa di esistente indipendentemente da esso.

Oserei dire che la teoria di una coscienza unica risulta anche armonizzarsi molto meglio con la scoperta scientifica che la materia di base dell’universo è unica, e che i diversi corpi altro non sono che diversi assembramenti di particelle assolutamente identiche fra di loro (riecco la fisica quantistica).

Se, di fatto, esistesse un’unica coscienza, e questa dovesse individualizzarsi e frammentarsi nei diversi esseri, potremmo ben paragonare la sua frammentazione all’evoluzione dei fringuelli di Darwin. Darwin, osservò che i fringuelli che popolano le diverse isole delle Galapagos, si sono differenziati nel tempo, ognuno per adattarsi all’ambiente della propria isola; formando così specie diverse. Allo stesso modo dovrebbe fare una coscienza universale per frammentarsi ed individualizzarsi: adattarsi in tutto e per tutto all’ambiente (individuo) che dovrà ospitarla.

La teoria della coscienza unica, può anche essere spiegata con l’analogia della corrente elettrica: da una centrale elettrica, la corrente si propaga attraverso gli edifici di un centro abitato. Arrivando nei singoli edifici, la corrente si manifesterà in modo diverso a seconda degli apparecchi che andrà ad alimentare. Così, la coscienza unica, propagandosi nei singoli individui, si strutturerebbe e manifesterebbe in modo diverso e adatto ai mezzi e la natura dell’individuo che andrebbe ad “occupare”.

Questo potrebbe valere non soltanto per quelli che la scienza considera “esseri viventi”. La coscienza potrebbe penetrare anche la cosiddetta sostanza inorganica, semplicemente a livelli ed in modalità differenti. Il “modo” di penetrare la materia da parte della coscienza potrebbe essere determinato, appunto, dal tipo di organo o struttura preposta alla sua “accoglienza” (come, nel caso degli animali, il cervello). Le piante, tanto per fare un esempio, non possiedono un cervello ma è dimostrato che abbiano un certo grado di “vissuto psichico”. Questo a riprova del fatto che il sentimento e il pensiero possano esistere indipendentemente dall’organo cerebrale.

Ora: se la natura dei pensieri e dei sentimenti viene determinata dalla struttura individuale in cui la coscienza universale viene incanalata, ci si potrebbe chiedere se questa coscienza universale abbia dei pensieri e dei sentimenti propri. Ancora una volta, credo che l’esempio della corrente elettrica possa prestarsi al caso nostro: l’elettricità che, indifferenziata, scorre nei fili ad alta tensione, è un’energia in grado di compiere un lavoro. Ma per trasformare questa potenzialità in un lavoro in atto, questa corrente dovrà andare ad alimentare un apparecchio specifico.

Allo stesso modo, forse, la coscienza universale andrebbe intesa come un’energia indifferenziata che contenga la potenzialità di ogni pensiero ed ogni sentimento, senza essere alcun pensiero o sentimento in atto se non quando la coscienza incontra un individuo che sia in grado di compiere questa trasformazione.