Grazia Brocchi, "Squarciando il velo"



Per la seconda volta mi è dato il piacere e l’onore di scrivere un testo critico su opere di mia madre; la quale è un’artista dall’immaginario quanto mai fantasioso e variegato nel panorama dell’arte attuale. Un’artista dall’espressività ma soprattutto dal pensiero molto sfuggente e stratificato, sicuramente impossibile da contenere nei margini di un movimento o “maniera”, e sempre alla ricerca di nuove vie per comunicare il bello.

Credo non vi sarà mai il giorno in cui si potrà dire di riconoscere Grazia Brocchi da un certo stile, un certo tratto, non perché le sue creazioni manchino di carattere e personalità, quanto piuttosto per il suo essere costantemente in cerca del rinnovamento, consistente nella sperimentazione di nuove tecniche, nuovi soggetti, nuovi materiali, e sempre nuovi modi di sorprenderci. Una tendenza che posso ritrovare in diversi aspetti della vita e del quotidiano di mia madre, la quale ha sempre in qualche modo fuggito, più o meno consapevolmente, ogni forma di “stasi” e “normalità”, come seguendo il flusso di una costante, florida, e sempre rinnovata creatività (che è ben diversa dall’anticonformismo sforzato e fine a sé stesso).

Questo, prima ancora di accostarci alle opere, lo possiamo vedere fin dai titoli dei quadri di questa nuova collezione. Titoli in cui spesso compaiono curiosi neologismi, dovuti alla necessità (che ha sempre caratterizzato mia madre) di subordinare la parola al concetto e non viceversa… Ed è chiaro che il neologismo induce ad un arresto che impone una considerazione più profonda ed intimista della parola, rispetto a quanto avvenga con parole già lette, già sentite, già usate. Neologismi come “intuitità” vengono perciò a supplire l’incapacità di termini esistenti (come “intuitività” o “intuizione”) di esprimere le idee sottili (più vicine all’anima e al sentimento) che in Grazia Brocchi vorrebbero sostituirsi alla sterilità comunicativa della semplice sfera razionale…



“Squarciando il velo”, titolo di questa seconda collezione di Grazia Brocchi, può apparire un titolo da filosofia spicciola con velleità new age, se con “Squarciando il velo” ci si riferisse al (ormai abusato) squarcio del velo di Maya, ovvero il superamento dell’apparenza. Pensare questo non farebbe che avvilire e banalizzare la fantasiosa genialità di questo titolo (e delle opere di cui esso vuol’essere, in qualche modo, “genio tutelare”). Lo squarcio del velo o dei veli cui (credo) si voglia alludere, in maniera di certo più originale, è il progressivo percorso dell’anima che cerca di valicare le cortine che la dividono dalla vista dell’amore. In questo, quindi, si potrebbe associare la sottile filosofia di questa collezione al mito, e in particolare al desiderio di Psiche di scorgere le fattezze dell’amato, Eros, che si presentava a lei sempre solo avvolto dalle tenebre della notte e in assenza di lumi.

Infatti, i soggetti di queste nuove opere di Grazia Brocchi riguardano tutti, in qualche modo, il sé, l’anima, l’altro, l’incontro di anime, il sentimento, l’amore.

Amore che è analizzato (no, anzi, osservato, in silenzio e quasi di nascosto), nella sua natura intima e interiore. Assenti riferimenti di tipo sessuale o passionale, i quadri ci proiettano in una dimensione di tenerezza e dolcezza, di amore inteso come inizialmente timida e poi via via più completa scoperta dell’altro, della sua natura, delle affinità e delle diversità su cui poi verrà costruito il rapporto.

Le figure rappresentate (ora maschili, ora femminili, ora androgine) non alludono e non vogliono alludere a nessun tipo particolare di amore, adattandosi ugualmente a descrivere la tenerezza, l’amicizia, l’amore materno, paterno, filiale o fraterno, l’incontro fugace o l’unione di una vita.

I personaggi, colorati ed onirici, sembrano danzare (se consideriamo non ogni quadro nella sua singolarità ma la collezione nel complesso) da un’opera all’altra, comparendo, scomparendo e ricomparendo in forme nuove, talvolta solitari, talvolta in un curioso gioco di coppia, come spiritelli dell’aria di shakespeariana memoria.

Visi che si baciano, o che si guardano l’un l’altro, come per indagarsi e scoprirsi, visi che sorridono e godono spensierati, od osservano quasi malinconici chi li contempla; visi che smettono di guardarsi, cercano di percepire la vicinanza ad occhi chiusi; sorrisi maliziosi e birbanti, o sguardi profondi, quasi da filosofi… ma sempre, comunque, tanto affetto, fiducia, desiderio di vicinanza e di protezione reciproca.

Visi che passano dall’astrattismo a tratti quasi bizantini, da linee e colori che sembrano fondersi con lo sfondo ad altri più marcati ed individualisti. Visi che parlano, e comunicano molto, a chi si sforza di ascoltarli. Visi che comunicano in silenzio, perché i loro discorsi non sono e non vogliono essere fatti di parole, ma di sentimenti condivisi. Occhi, che cercano negli occhi di chi li guarda la complicità di chi ha vissuto quegli stessi sentimenti…

Se consideriamo le opere di “Squarciando il velo” anche come proseguimento ideale di “Immanenza grafica”, potremo notare che se in quest’ultima era inscenata una metaforica destrutturazione dell’edificio chiesa, che veniva trasfigurato attraverso il colore e la forma grafica, quasi un gesto di prepotente irruzione dell’arte che stravolge la struttura religiosa intesa come confine alla spiritualità riportando il senso religioso all’immanenza, allo stupore per la forma e dunque al creato; in “Squarciando il velo” il discorso interrotto viene ripreso, e ricondotto all’intimità, al soggetto, alla persona, che diviene a sua volta, in qualche modo, tempio di quello stesso sentimento di immanenza. La creatura che si fa interprete del pensiero divino nel creato attraverso la facoltà dell’amare.




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