Praticare per ingentilirsi (Seconda Parte)

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La libertà dell’accettazione

Per esempio, supponiamo di avere contemplato gentilmente e rispettosamente la nostra impazienza il più possibile. E abbiamo visto tutta la sofferenza che creiamo, mentre siamo intenti a dare la colpa a qualcos’altro. Un giorno, finito il lavoro, aspettiamo un autobus che ci porti a casa. Immaginiamo che l’autobus sia in ritardo, forse molto in ritardo, e forse non è la prima volta. Quello che potrebbe accadere, con nostra sorpresa e sollievo e diletto, è di ritrovarci a dire un sì pieno al fatto che l’autobus è in ritardo. Non che la cosa ci faccia piacere, ma ci troviamo ad accettare pienamente il fatto che l’autobus sia in ritardo. E in tal modo gustiamo un senso di libertà. Naturalmente non ci piace la cosa, ma siamo in grado di dire sì alla realtà, e la realtà è che l’autobus è in ritardo. Non dovrebbe esserlo, ma lo è.

L’autobus che arriva puntuale esiste ora solo nella nostra immaginazione. La realtà è che l’autobus è in ritardo, quindi noi semplicemente siamo tutt’uno con la realtà. Non ci spacchiamo in due con un rammarico pieno di tensione e risentimento. Semplicemente abbracciamo la realtà così com’è. E questo può essere come un grido interiore di libertà, questa capacità di dire sì alla realtà così com’è.

Possiamo ampliare lo scenario, questa sequenza di eventi quotidiani. Infatti può capitare che quando l’autobus finalmente arriva sia incredibilmente pieno. E a stento riusciamo a entrare. Ancora, possiamo dire un sì totale a questo fatto? Sapete, un autobus semivuoto è, di nuovo, solo nella nostra immaginazione. L’autobus è incredibilmente pieno, e questo è la realtà. Il senso di spaziosità e libertà che possiamo sperimentare è proporzionale alla nostra capacità di dire di sì alla situazione, a una situazione relativamente difficile. Simultanea-mente stiamo dicendo no alla prigione della nostra reattività: ecco il gusto della libertà. Una volta tanto non ci stiamo condannando alla sofferenza, alla sofferenza non necessaria, come facciamo abitualmente. E forse, quando finalmente arriviamo a casa, abbiamo appena messo un piede sulla porta che qualcuno ci dice qualcosa di spiacevole; è possibile!

Ma se siamo riusciti a tenere la finestra aperta finora, non ci siamo contratti e abbiamo detto sì al primo evento e sì al secondo, allora non saremo amaramente induriti. E forse possiamo dire un terzo sì, con nostra completa gioia. Il che non significa, naturalmente, che non diremo niente se pensiamo che invece sia necessario farlo, ossia che non diremo ciò che riteniamo giusto, ma la grande differenza è che la nostra risposta verrà dalla pace, invece che dalla reattività. Saremo perciò anche più convincenti, oltre che più in pace.

È ben possibile educarci in un simile modo. Ed è la ragione per cui pratichiamo. Tre piccoli incidenti come questi possono essere utili per educarci a una maggiore duttilità. Ma gli stessi incidenti, non accompagnati dalla pratica, facilmente sono destinati ad avere l’effetto opposto.

Ora c’è una trappola insidiosa quando ci accostiamo a questo tema. E la trappola è questa: le piccole cose – l’autobus e così via – possono sembrarci situazioni troppo comuni, troppo poco importanti. Noi, invece, vogliamo imparare ad affrontare situazioni veramente difficili. Supponete però che abbiamo appena iniziato a studiare l’inglese. Dopo poco tempo diciamo: "Ma io voglio leggere Shakespeare. Non voglio fare gli esercizi di grammatica. Non voglio perdere tempo a tradurre queste frasette brevi e piuttosto stupide". Sappiamo tutti che questa è un’assurdità, che abbiamo bisogno di questo lavoro di base se vogliamo leggere Shakespeare. In termini di pratica, l’esercizio fondamentale è, in primo luogo, la meditazione seduta. In termini Zen, la pratica di base sviluppa quello che in giapponese si chiama jiriki, termine che designa quella energia che deriva da anni di pratica seduta. Essa si traduce in fiducia, in motivazione, nella capacità di praticare e di vivere.

In secondo luogo è necessario esercitarsi con tutta la varietà di piccoli incidenti che avvengono durante il giorno. È una pratica enormemente importante. Pensiamo a ciò che avviene spesso in un tempo molto breve. Ci svegliamo al mattino, per esempio, e in breve abbiamo già accumulato un certo numero di no, un certo numero di irrigidimenti. La prima cosa che pensiamo è che non abbiamo terminato un lavoro la sera prima. Non ci piace la cosa e non ci piace nemmeno il fatto che sia brutto tempo. Inoltre non ci piace l’idea che dovremmo andare alla banca che è molto lontana dal nostro posto di lavoro, e così via. Ognuna di queste reazioni potrebbe essere un luogo per esercitarci, potrebbe essere un invito a rilassarci invece di contrarci. E nel caso in cui ci contraiamo, ci è offerta allora un’occasione per contemplare la contrazione e per infondere un po’ di tenerezza dentro la contrazione.

Ma questo lavoro ha bisogno di spazio interno, e parecchio spazio può venire dalla pratica seduta. Abbiamo un sentimento così angusto riguardo al tempo nella nostra società che spesso perdiamo molte occasioni di praticare per il semplice fatto che è sempre tardi. In un ritiro forse ci rilassiamo, finalmente, ma poi torniamo a casa ed è di nuovo sempre tardi. Anche il modo in cui parliamo è indice di questa mentalità. "Farò un salto per un secondo..." perdiamo perfino il senso dell’umorismo. È come se fossimo costantemente inseguiti da qualcosa o qualcuno.

L’attaccamento all’avversione è attaccamento alla sofferenza

Forse siamo molto diligenti nel meditare ogni mattina, ma appena la seduta è finita, entriamo in questo folle ritmo mentale, in questa forma di sofferenza. Fondamentalmente, chiudiamo la porta alla consapevolezza per il resto della giornata. È come se le dicessimo: "Arrivederci alla prossima seduta". E questo è un grosso ostacolo per il lavoro di cui parliamo, il lavoro di diventare più duttili.

Poiché la tua mente è abituata a indugiare nella negatività anche se accade qualcosa di piccolo, per esempio una piccola agitazione, tu immediatamente l’afferri, e a causa del tuo attaccamento, la trasformi in qualcosa di molto più grande. In tal modo permetti a un fatto irrilevante di portare molta infelicità nella tua vita. Tendi a dare la colpa della tua infelicità a qualcosa di esterno, ma in effetti tu stesso hai creato questa sofferenza perché sei attratto dalla sofferenza 3.

Sentendo questo forse potremmo protestare, dire: "No, non è vero! Io non sono attratto dalla sofferenza". Ma che dire dell’attrazione per l’avversione? Anche questa è attrazione per la sofferenza e non dovremmo avere difficoltà a metterci in contatto con essa dentro di noi! A volte siamo molto bravi nel praticare e ricordare il Dharma in situazioni positive o neutrali, il che è un bel passo avanti. Perciò ora c’è un nuovo importante elemento nelle nostre vite, dato che ci ricordiamo del Dharma quando la situazione è buona o neutrale. Senonché quando la situazione diventa difficile, non c’è verso! È come se continuassimo a fare qualcosa che ci fa sentire sicuri, ma evitassimo ciò che ci sembra rischioso. In un certo senso, è come se continuassimo ad andare al liceo e non entrassimo mai all’università perché ci sentiamo sicuri al liceo. Una delle ragioni di ciò è che siamo attratti dalle ruminazioni negative. C’è una sorta di eccitazione nel sentirci indignati, nel sentirci furiosi, nell’alimentare quel fuoco dentro di noi. E non vogliamo lasciarla andare. Sentiamo che la consapevolezza mette in pericolo questo piacere piuttosto discutibile, e perciò evitiamo con cura la consapevolezza. Il fatto è che non vogliamo deporre la nostra dipendenza mentale dalla collera, dall’irritazione, dall’avversione e da tutto ciò che la nostra mente è solita dire quando divampano queste emozioni. Ci pare di ricavare una qualche energia da tutto ciò, e non vogliamo lasciarla andare.

Penso che il punto cruciale sia l’auto-importanza, l’importanza data a se stessi. Quando parliamo di io-mio, parliamo di auto-importanza. Se ci critichiamo, se abbiamo un’autostima molto scarsa, anche questa è auto-importanza. Affoghiamo letteralmente nell’auto-importanza. Se diciamo auto-importanza, magari pensiamo solo al fatto di vantarsi o simili. Ma l’auto-importanza è una dimensione molto più vasta, e comprende tante forme di autoriferimento. Perciò eccitarci nella nostra avversione è auto-importanza. Letteralmente, è come se ci sentissimo più importanti se siamo arrabbiati. A volte è come se non volessimo perderci nemmeno un’occasione per arrabbiarci.

Tuttavia più vediamo che l’attaccamento all’avversione è una grande fonte di sofferenza, più è probabile che la nostra auto-importanza comincerà a ridursi. E allora entreremo in contatto con qualcosa di completamente diverso che potremmo chiamare dignità fondamentale, la dignità di un essere umano, di un essere vivente. E questo non ha niente a che fare con l’io-mio; è qualcosa di molto più basilare, più calmo, più semplice. Non abbiamo bisogno di ubriacarci di avversione una volta che siamo entrati in contatto con questa dignità fondamentale; a questo punto non abbiamo più bisogno di droghe.

Quando cominciamo a sperimentare un po’ di questa dignità fondamentale, allora il lavoro interiore diventa più facile: la possibilità di accettare, la possibilità di ingentilirci, diventa più accessibile, perché non siamo più ubriachi di auto-importanza. Non abbiamo bisogno di tutti questi espedienti, siano essi rabbia o attaccamento. A misura che riusciamo a cambiare la nostra relazione con lo spiacevole, la tenerezza che è in noi — tenerezza che è sia amore sia intelligenza — aumenta. E questa è decisamente una buona cosa.

Fonte:http://digilander.libero.it/Ameco/sati981/corrado.htm

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